La Wunderkammer di questo millennio potrebbe ancora essere il luogo in cui lo stupito osservatore del mondo raccoglie mirabilia, separati in naturalia e artificialia, in base alla meraviglia che producono per la loro origine naturale o in quanto prodotti dall’uomo? La domanda non è retorica e allude alla capacità effettiva, nell’epoca della moltiplicazione delle immagini (che coincide con la rarefazione dell’immaginazione) di sorprendersi e avvertire il desiderio di raccogliere le meraviglie - invece di consumarle, o diffonderne l’effige senza uno scopo preciso, ma con l’invitabile ricaduta della dispersione di significato. È facile, a questo punto, il ricorso alla perdita di aura dell’opera d’arte, alle conseguenze della sua riproducibilità tecnica e al dibattito innescato negli anni Trenta, e anche prima, e oggi di esasperata attualità. Ma c’è qualcosa di più: abituato a tutto, anche a ciò con cui non ha familiarità, l’osservatore contemporaneo ha perso anche la predisposizione alla contemplazione.

E lungo queste due linee si muove la ricerca artistica che Roberto Pupi da anni conduce sulla fotografia e sulla sua possibilità di estendersi oltre la sua convenzionale, “necessaria”, bidimensionalità: da un lato c’è una constatazione riguardante la fotografia stessa, come linguaggio non esausto e ancora in grado di sottrarre l’eccezionale alla sconsolata distesa del banale, del seriale, del mondo supinamente decodificato; dall’altro c’è la ricerca di una meraviglia restituita alla natura dell’immagine, al suo svolgersi in un dialogo inedito con chi la osserva, alla possibilità di sollecitare una visione non frugale.

Così, la “camera delle meraviglie” di Roberto Pupi si riferisce tanto al processo quanto al suo esito. C’è in primo luogo la creazione attraverso nuovi strumenti, e con dispositivi che sono ancora sperimentali, e di conseguenza soggetti alla possibilità di fallimento o di risultati non aderenti a quanto previsto nel progetto dell’autore. Ogni volta Pupi “prova” una forzatura, un passaggio ulteriore nell’indagine sull’articolazione della creazione e dello sguardo, un tentativo deviante rispetto alla visione già consegnata e consunta della realtà visibile; e ogni volta potrebbe anche non riuscire, o divergere rispetto all’intenzione iniziale. E qui risiede il primo fattore di sorpresa, in questa scoperta dell’artista al cospetto della sua stessa opera.

Gli esiti di questo lavoro portano all’apparizione di una forma che proietta nello spazio, invadendolo, una visione non scontata della natura (ecco il secondo punto di scaturigine della “meraviglia”). L’elemento critico sta nel fatto che questa spigolosa poliedricità dell’opera di Pupi tende alla verosimiglianza dello sguardo, e alle dinamiche di percezione degli oggetti, in un modo molto più naturale di quanto non faccia la fotografia tradizionale. E tutto questo sollecita una riflessione che riguarda non solo il soggetto rappresentato ma la sua conoscibilità.

I due alberi presentati in occasione di questa mostra costituiscono tentativi diversi di percezione complessa della realtà registrata con la fotografia. Sono più produttori di immaginario che immagini essi stessi: l’osservatore deve attraversare lo spazio che li contiene, e più di una volta, per poterli comprendere, contribuendo in tal modo alla loro definizione, al loro affermarsi come opere, come nuovi mirabilia che sono a un tempo naturalia e artificialia. E qui si trova una delle possibile risposte al quesito iniziale: la Wunderkammer  contemporanea dovrebbe contenere oggetti che innescano registrano, testimoniano e documentano processi. Mirabilia disposti lungo il tempo.